Queste furono le ultime parole scritte da Cesare Pavese sul suo libro Dialoghi con Leucò prima di chiudere la sua vita con un sonno lungo e finalmente riposante. Poche parole per uno scrittore che ne aveva scritte molte. Non ho mai avuto eccessiva empatia con gli scritti di Pavese e non l'ho mai riconosciuto un poeta nei suoi versi molto più vicini alla prosa. Ma nella mia giovinezza l'ho sentito intimamente e con forza e non so spiegarmi il perché. Forse ispirava la mia malinconia, il mio solitario vivere un periodo di vita che sicuramente doveva essere vissuto in altri modi. Era forse la solitudine metafisica che traspirava dai suoi scritti e che superava in eccellenza la stessa scrittura. Sicuramente non comprendevo la sua attività politica, quel credere sincero o meno, in una forma di convivenza fra gli uomini più uguale in una società con meno differenze. Non ero sicuro che fosse nel vero e temevo una oligarchia di intelletti con una stessa limitata dimensione del mondo, un potere all'inverso ma sempre un potere da instaurare e proteggere. Pensavo che un poeta dovesse avere un orizzonte più vasto e sicuramente più rarefatto per rispecchiare un pensiero che oltrepassasse le dimensioni verso una dimensione inesistente. E una forma politica è invece qualcosa di estremamente esistente che limita comunque le aspettative della libertà, della uguaglianza, della giustizia. Tuttavia non potevo sottacere quell'aria di mistica irriverenza alle cose del mondo che trapelava dalle sue parole, da come venivano accomodate e come sembravano prendere la mano indicando con l'altra un punto preciso. Senza sapere verso dove. Forse solo verso una camera di albergo, tante pasticche bianche, un libro con un nome mitologico e la raccomandazione di non sparlare, anzi di non parlare per niente di quella cosa esclusivamente sua. E allora un po' anche mia, ma in silenzio.