23/08/22

 












  sera


di questo simbolo è la sera

immensa distesa di colori

di speranza di forme

di strette ipotesi di sogni

fino all'inconscio

che traduce i ricordi

parlando nella lingua morta

di una gonna

strusciata un attimo alla pelle

quelle visioni

quei sordi suoni di terrore

davanti alle platee

parole lunghe che girano la terra

acqua di fiume presa dentro il mare

ascolta questa fiaba

il nonno ti racconta

l’età che aveva dentro la sua pelle

il tempo fragile

le ore repentine

l’odore di mischiato

quando gli odori salivano alla luce

e i suoni

fessi di ogni rumore

nel vento che precede l’acquazzone

la pioggia che si infiltra

nei solchi rossi

e scola nella foce

di un improvviso gemito d’amore


SZ da  Aisthesis

postato da O.P.  Ortona



01/08/22

 




Pasolini, poeta corsaro.

 

Amavi troppo la purezza, la castità che per te era salvezza. E meno purezza trovavi, più ti vendicavi cercando la sporcizia, la sofferenza, la volgarità: come una punizione. Come certi frati che si flagellano, la cercavi proprio con il sesso che per te era peccato. Il sesso odioso dei ragazzi dal volto privo di intelligenza (tu che avevi il culto dell’intelligenza), dal corpo privo di grazia (tu che avevi il culto della grazia), dalla mente priva di bellezza (tu che avevi il culto della bellezza). (Oriana Fallaci)

 

Su quella spiaggia mi sono fermato per mettere a fuoco una lontananza di avvenimenti, restando indeciso sulla loro posizione avanti o dietro. Non mi è balenato nella mente che potessero essere attuali, considerato anche che non avevo alcuna ragione di ricordarli o di predirli. La voce del poeta era nei chicchi di rena ancora umidi della loro inconsistenza, rimasti nel silenzio sovrastato di voci rudi, cattive, maleodoranti. Più su il rumore strascicato del mare, ricordo di una sera di stupore, di meraviglia per un uomo sacrificato da se stesso nel lungo peregrinare della sua mente. Se si guarda bene in lontananza c'è sempre un orizzonte, a volte lungo fino alla curvatura della terra, a volte breve fino a un monte, un dosso, una foresta, raramente ai resti di una vita. Ma lo sguardo è lo stesso in ogni caso e in ogni caso l'orizzonte ha le stesse sembianze, come se la natura avesse mille possibilità di svelarsi.      Ho anche compreso che ci sono suoni diffusi nell'inconscio di una similitudine fredda, un modo di arginare una sensazione che può dissolvere il significato delle cose. Disteso mi sono sentito portare all'estremità di una semplice possibilità, dove non ci sono più gli orizzonti, ma solo posti più lontani che si allontanano continuamente quando si va loro incontro. Allora ho pensato che potevo anche smettere di camminare perché non sarei mai riuscito a raggiungermi per provare che le allucinazioni non hanno sensi definiti, ma si compattano nelle loro debolezze fatte di sogni e di immagini lascive. Quando stavo a Roma in estate andavo su quelle spiagge (Ostia, Fregene) a colorare il mio corpo acerbo, infantile. E sentivo gli ormoni che già salutavano chi mi accarezzava. Un gioco, un gioco di sintesi infinta, come sentirsi colpire a un fianco senza dolore, senza alcun risultato. Ma capire la forza del colpo. Adesso ero il poeta che aveva giocato con gli ormoni, li aveva aperti e ne aveva estratto il nettare di una poesia malinconica, soggettivamente esausta. Il poeta seduto sulla rena intrisa dal sangue del poeta, demiurgica coscienza che aveva cercato il riscatto, la consapevolezza di sé nelle profondità di qualcosa che sfuggiva continuamente a una forma, a una descrizione. Che poeta poteva esserci nella violenza di una sera mistica che avevi comunque cercato da tempo, in quella fine dove la gloria appariva affrescata in una parete solo orizzontale e la vivacità della mente attendeva l’inevitabile per esplodere infine in una conoscenza tanto agognata quanto immediatamente dispersa. All’ultimo avevi forse chiesto di poter iniziare tutto dal giorno successivo. Non avevi spiegato le ragioni della richiesta è vero, avevi creduto di non doverlo fare, che non fosse necessario, che avrebbero capito. Ma guardasti gli occhi spenti, il volto ottuso, il sesso unica espressione umana e capisti che per alcune cose era ormai tardi  e per altre era solo l’inizio, ineluttabilmente. Come quando sentivi strane cose dentro, come il generico desiderio di trovare. Non sapevi cosa, solo trovare, qualunque cosa, anche una cosa che qualcuno aveva perso, una cosa da nulla, buttata via, una cosa anche sporca. Il tuo rapporto con il mondo era falsato dal senso di innocenza congenita, qualcosa che avevi da sempre, che non ti lasciava mai. Avevi provato a distrarti, andare nei posti, frequentare persone, ma non eri mai riuscito a toglierti di dosso quella sensazione. Ma forse era più di una sensazione. Una realtà? Parola grossa che non ti sentivi proprio di pronunciare. Diciamo un qualcosa che vedevi e non vedevi, che potevi mostrare o non mostrare. Insomma qualcosa che non aveva fisionomia particolare, ma nella filigrana del tuo mondo si distingueva e quindi era certamente esistente. Quella volta senza saperlo era cominciata una cosa diversa che scombinava tutto, che aveva prodotto nella tua mente immagini di situazioni di cui non trovavi rispondenza, che non eri  riuscito per un lungo attimo a collocare in nessun momento delle tue giornate e non l’avevi percepita neppure nei tuoi incubi. Era naturale quindi che ne traessi turbamento, instabilità, paura. Come era naturale che cercassi di toglierti di dosso quella situazione, di abbandonarla da qualche parte, di sentirti di nuovo leggero in quella notte di passaggio, di assenza appena avvertita di tutta una vita. Pensavi che un fiume scorre come una memoria e lascia melma, lascia detriti. In fondo quella nebbia leggera che cominciava ad offuscare era gratificante, ti lasciava smarrito e irriconoscibile, ti portava all'inizio della  storia. Nata lì, su quella riva, su quella rena, sui gemiti di una  perifrasi della tua prima esistenza, quando avevi fame di quell'odore che saliva sempre più acre con l'eccitazione. Ma non erano simboli, neppure modi di esistere e nemmeno scene di passione. Erano dolci ricordi di qualcosa che doveva ancora accadere, che non aveva ancora posto nel mondo. Come la percezione di ciò che desideravi, che volevi dentro, a cui avevi lasciato da tanto un posto ben definito, per avere qualcosa anche tu e baciare le labbra offerte in un piccolo spazio di consapevolezza. D'improvviso vedesti  e fosti folgorato dalla strana fisionomia che ricordava  il niente, che capiva che il vuoto non aveva il posto promesso dalla tua fantasiosa costruzione di avvenimenti. Capìvi anche che i tuoi attimi erano trascorsi prima di esserne il legittimo titolare, in certe sere dove l'amore aveva l'aspetto di tutto ciò che ti era intorno. Un amore sfasato dall'ampiezza della tua capacità di averne bisogno, dalla falsa ragione che tutto derivasse da quella strana posizione in cui ti eri trovato quando avevi provato ad adagiarti dove il calore scaldava il morbido della pelle. Forse qualcuno avrebbe pensato che non era successo niente e sarebbe corso a dirlo, a spiegare che lui sapeva cosa volesse dire veder scorrere l'acqua del fiume sotto il ponte. Poi capisti perfettamente che non ti importava cosa potessero pensare o dire, era una cosa esclusivamente tua e ne potevi disporre senza rendere conto a nessuno, per una volta, per una sola volta. 

 

Solo il rumore del mare adesso ondeggia le parole e risacca  lentamente il silenzio della notte in una voce corsara rimasta  afona sul litorale, in attesa di quell’ultima felicità che la spenga e la sublimi per sempre nell’agognata Tortuga:

 

“ Agli angoli delle strade piccoli sciuscià vendono minuscole gabbiette dove frinisce uno strano animale che non salta più. Lo vendono per pochi spiccioli e infastidiscono i passanti con le loro insistenze. Hanno abiti troppo larghi o troppo stretti e sfoggiano un sorriso donato sicuramente da qualche opera assistenziale. Sempre agli angoli delle strade, agli angoli di tutte le strade, dove passano lentamente maschere di un carnevale precoce.

E’ una inconscia dinamica di tristezza che corre lungo i margini di piccole dimensioni esistenziali. Piccole immagini di altre situazione rese incomprensibili adesso, significazioni di un esercizio non più dinamico del vivere. Dietro l’occasione si nasconde il tempo delle occasioni perdute, delle novità rimandate, del tempo magro di spiragli di umanità. Si possono numerare uno per uno i sogni che esplodono in momenti diversi, in intervalli di flussi vitali che si perpetuano uno dietro l’altro, senza un volto di riconoscimento. Quasi ectoplasmi imbizzarriti della coscienza che anela il senso di avere ancora la capacità di rappresentarsi. Si crede di occupare tempo in uno spazio rarefatto fino a un senso di mancanza di respiro, di difficoltà a deglutire minuti e ore che impedisce il naturale ricambio vitale. L’astrattezza dell’insostenibile esigenza di continuare comunque un cammino si restringe nell’insolubile desiderio di stare in ogni caso al posto fissato, unica possibilità di non cadere, di vedere ancora una strada che comunque è davanti. Piccola esemplificazione di una disagiata possibilità di organizzarsi, di spendere il tempo nel migliore dei modi. Anche quando il senso della vita appare paradossalmente inusuale e pigro, come non avesse alcuna volontà di movimento. Inutile, come le cose che inutilmente appaiono e scompaiono dal nostro orizzonte, senza alcuna partecipazione, senza nessun patema d’animo. Ero consapevole della situazione, avvertivo chiaramente il pericolo. Mi muovevo con lentezza, le lunghe antenne tese a rilevare ogni rumore, ogni alito di qualunque genere. Quanto può esistere un essere in quella situazione, come deve comportarsi per sopravvivere? Infinita letteratura ha chiarito gli aspetti banali, le linee guida di quella speculazione pericolosa, nei meandri di un viscido conglomerato attraversato da brevi  lampi lineari verdi. Ma nessuno era mai riuscito a viverla, ad avere la diretta percezione della sua estraneità ad ogni esperienza. Attendevo il momento propizio per essere cosciente, per dare un significato di sintesi a una serie di esperienze che non conoscevo. Non avevo erba ne acqua e avevo fame e sete. Mi raggomitolai ponendo il corpo squamoso a circolo, unendo quasi la testa con il bacino. Così stavo abbastanza bene e potevo riposarmi per un poco.  Ma come era possibile che fossi solo, che le mie antenne non captassero alcun rumore, alcun movimento? C’era una sintonia magica fra me e quel bulbo molle che da una iniziale sensazione di schifo era piano piano divenuto un giaciglio, caldo e semovente. Pensavo a quanta oggettivazione, a quanto misticismo poteva avere  la posizione inversa di un mondo fermato bruscamente nella sua accelerazione. C’era una singolare espressione di identità con un esempio di rara similitudine umana, una piccola esagerazione nell’immediato desiderio di evadere, un gusto direi, espresso molto fedelmente girandomi sulla schiena e facendo muovere le molte zampette come in un tandem.  Sentivo che nasceva e si formava una stupida ipotesi di esistenza, proprio come averla avanti e dietro nel giorno e la sera spostarne lentamente la prospettiva in quella iperbolica misura di una immobile ipotesi del senso di un posto già occupato. Il posto ecco, era il posto già preparato l’incognita, ciò che poteva davvero vincere la nostalgia. Ma non potevo avere questa certezza e  mi chiudevo in una esaltante cinta ideologica. “Oltre l’ossessione della primavera ci sono i fiori e  hanno anche un odore rigenerante ma nella prateria gli zoccoli di cavalli bradi stanno dissodando terreni incolti” pensavo e potevo sperare che la strada maestra sia un vicolo più largo e luminoso anche se non ci sono speranze che un posto solitario sia la costante di una vera possibilità. Ma è  di sicuro un avvenimento speciale e avrò certamente la coscienza di averne diritto per quell’ unica ragione che hanno detto essere mia, ma che nessuno ha reso omogenea al mio frantumato ricordo embrionico, come fare tante volte il giro di un vecchio palazzo senza trovare la porta d’ingresso ma essere comunque sicuro di essere entrato. La lontananza degli avvenimenti riflette la padronanza di  cose, di persone, di parole. Una piccola dimensione esiste senza linee di confine, ellisse virtuale di dimensione come l'universo, assenza dello spazio di tempo nelle infinite intersezioni che non sono ma accolgono l’inconscia sublimata possibilità del niente nella traduzione cosmica di un avvertito idioma mai parlato. Cosa voglio ormai, cosa cerco nella conoscenza, nella  vicinanza, nella compagnia? Un   abbandono come mi hanno detto con aristocratico fascino erotico ? Certo  potrei farlo, potrei regalarmi l’ultimo momento senza avere paura del niente e senza crollare d’istinto. Vedrò passare conoscenze inutili, cercherò un punto fermo, un’illusione di voce, un movimento adatto all’insolenza. So che tutti vorrebbero  controllare, vedere il  cedimento, avvertire che l’urlo è suono di paura vitale, l’impeto di un coito interrotto, un abbandono dunque come si potrebbe appunto minimizzare. Ma non sarà così, un  dio della luce avrà altro da fare, si perderà in altri luoghi, in altri animi e l’abbandono sarà con me stesso, non c’è nessuno che lo meriti, nessuno con cui possa godere l’ultima volta nel leggiadro senso del nulla, negli avvenimenti del corso del destino, suprema voglia di esistenza. Cerniere di pensieri aprono voci, simbiosi lontane, immagini senza lineamenti,  traspirazioni del creato nel planetario umido di coscienza. Circoncisioni di difetti esaltano la prima libertà, concetto senza voce, colore del buio di un ricordo nell’ immaginaria esaltazione dell’ultimo coito di genere indeterminato. Si dice delle parole scomparse che sgranano la spirale della vita, che il tempo lascia immagini voltate a un ricordo da farsi amico per sempre, da sentire nelle ore come odore obsoleto con i minuti gettati  nell’angoscia. Come una breccia nell'inconscio sembra ancora essere, non tornare, riflettere nella sera, riconoscere la notte come giorno passato ad attenderla nella speranza che il tempo sia quello non avuto, amare la fisicità delle parole, il grido angosciosamente felice del venire, la nostalgica consapevolezza di vivere oggi un tempo lontano. Come una solitudine abissale nel torpore d’animo, abbraccio l’infinita espansione, penetro profondi di pensiero, silenzi, lontananze, smarrimenti, occasioni inutili, incontri senza protezione. La monotonia filigrana immagini, suoni parlano spazi, calendari di  indifferenza vivono miserie di giorni senza tempo, attimi uguali, invisibili arcobaleni di speranze, silenzi della fantasia. I portoni senza cardini aprono visioni su mari, montagne, strette di mano.  Il divenire è incognita nella verità dell’illusione. Con sguardo di cieca meraviglia sputo le piume di un dio che dorme nel mio nido e apro  il becco per dividere il verme. L’essere e il nulla non danno brividi metafisici, costruiscono oggetti banali per una lettura svagata, la colpa non è mai della bestia ma di chi si avvicina e la tragedia è avere perduto il senso della tragedia immersi nella tragicommedia dei giorni dove vivere è divenuto imperativo di non pensare al significato della vita, alla paura fisica, al terrore con radici nell’inconscio, serenamente rumore incomprensibile. Nell’apocalisse di un penitente la vera ragione del silenzio esclude umanizzazione della sofferenza, perde le grandi dimensioni, dove l’imprevedibile immagine della fortuna media le previsioni perdendo l’unica sicurezza in una sottomessa precarietà d’istinto. Un leggiadro senso del nulla nel corso del destino rallegra la suprema voglia di esistenza nelle cerniere di pensieri che aprono voci, simbiosi lontane, immagini senza lineamenti,  traspirazioni del creato nel planetario umido di coscienza. Circoncisioni di affetti esaltano la prima libertà, concetto senza voce, colore del buio di un ricordo nell’ immaginaria esaltazione. Nuoto in un mondo liquido senza consistenza di appiglio, faccio il morto dondolando su onde sporche, respiro ad intervalli regolari, saluto il capitano dell’ultima nave  passata. Rivolto al cielo non vedo orizzonte, si perdono i punti cardinali, la notte  chiude gli occhi in un ondeggiante odore di cloroformio. Ora nell’ alba galleggia  un corpo in superficie, nero nell’incertezza dell’aurora. Dondola, si allontana, si avvicina, si accosta, è caldo, le mani  sciabordano l’acqua, sfiorano la parte sensibile del corpo. Un’onda  ci capovolge e non c’è più cielo, fisso lo sguardo innocuo, impaurito, languido. La marea sospinge a riva come pesci fuor d’acqua saltellanti sorsi d’aria, per la risacca che ritira le onde,  su un solido di migliaia di chicchi di rena e i polmoni respirano iodio.  Il silenzio è uno strano rumore di risucchio sempre più debole fino a  un clic metallico. Rotolando sulla rena ci allontaniamo sicuri di arrivare quando avverto il disagio di essere  escluso dalla sottile ragione di interessi che tiene uniti gli uomini senza elementi comuni,  contratti in ipotesi differenti nell’assurdo solfeggio per una musica rara. Amarsi è il momento giusto per cominciare ad allontanarsi dalle immagini di situazioni ormai accadute nell’armonia di quanto non ha esistenza nel vissuto che rimpiange i primi indizi di una stupida possibilità certa. Possedersi poi senza il senso di capire, non fermarsi e correre nel gioco continuo delle spirali di una discesa al punto ultimo, nel sapore di un incognita che odora di ranno e di bucato antico quando si rende una vita farcita di delicatezze al dio che ha perduto il suo regno. E i cari oggetti che fanno compagnia sfumano la solitudine del quotidiano, oggetti che ricordano passati vizi, vecchi, usurati dal tempo, compiaciuti di essere stati posseduti, inespressivi nei giorni  monotoni. Li ho visti  vivere,  animarsi, sfumare luoghi e persone, nelle ore rintronare parole nella mente, accompagnare solitudine e paura, dar credito alla promessa estranea di un mondo non buono ma stupidamente necessario a vivere ”


Stefano Zangheri

Per l’anniversario della nascita di Pasolini, libro di AA.VV., edizioni Elsud, ideato e realizzato dalla Presidenza della Accademy Regione Basilicata.


Il libro è stato ritenuto meritevole di essere ufficialmente inserito nel Comitato Nazionale per il centenario della nascita di Pasolini.

Postato da  L.P. UniFi


02/07/22





avevo un glicine tra le mani di maggio

 

avevo un glicine tra le mani di maggio

nel balzo distorto di un affanno

avevo un fiore rancido

che aveva sete fame e anche paura

lo nascondevo nell’occhiello sdrucito del cappotto

per render freddo maggio

e tornare a coltivare rose nel sentiero

tra pini sorti in una sola notte

come lunga teoria di scampati alla minaccia

avevo un glicine tra le mani sporche

rifletteva frammenti di colori nel mio sguardo spento

anelava una goccia di chimera

odorava di fragola nel gioco

perverso di scordare ancora

che tutto  ciò che  appare è solo niente

 

SZ   luglio 2022   “poesie cremate e disperse”

 

17/06/22

Pensieri e.....

 

Nei rapporti la delicatezza del silenzio mantiene trasparenza alle immagini dell’animo, la pesantezza delle parole le rendono torbide. Solo la novità potrebbe parlare senza timore di inquinare perché non ha ancora le immagini nell’animo, ma non arriva mai perché quando arriva non è più novità, lo è quella dopo. Ed è proprio l’inesistenza della novità che crea le ossessioni. Sappiamo tutti che una vita può essere un attimo e che un attimo non può essere una vita. Ma sappiamo anche che questo una volta almeno è successo. Per questo qualcuno soffia continuamente la nebbia per poter vedere nitidamente le immagini e se a volte cessa non è per riposarsi ma perché ha bisogno che solo la fantasia veda quelle immagini. Come adesso che tutto mi appare estraneo, vago e non ho il senso della logicità del tempo. Un attimo non può essere una vita ma una vita può essere un attimo. Per questo devo tornare indietro, molto ed è sempre più difficile trovare la strada per quel chicco di dna. Non arrivo e sono stanco, ma mi trascino perché so che solo lì è tutto ciò che sono stato e tutto ciò che ho detto. In un minuto. E in un minuto deve finire, implorando il pensiero e il calore del sangue. Perché non ha senso l’orgoglio per cercare di non aver paura della morte nell’unico posto e nell’unico attimo dove  non si è avuto paura della vita.

SZ


25/05/22

A te che sarai donna............ amarcord







 


prendi una stella cometa
avvolgila
lentamente a un respiro
rimasto immobile
al mattino
alla sera
al brivido di notte
che gela il fiato
senza coperte addosso
prendi la luce
nei piccoli frammenti
dei pensieri che hai
e fanne lunghi dialoghi
di parole
di frasi lasciate libere
prendi un incontro
nei tuoi giorni
prendi solo lo sguardo
accoppialo
mettilo doppio
e portalo lontano
dove hai scelto di vivere
poi prendi
e prendi
e prendi ancora
quel che è rimasto

                                                SZ 

                                    Premio Internazionale Europa , Lugano  
                               
tradotta per le scuole in varie lingue europee , 2014