Pasolini, poeta corsaro.
Amavi troppo
la purezza, la castità che per te era salvezza. E meno purezza trovavi, più ti
vendicavi cercando la sporcizia, la sofferenza, la volgarità: come una
punizione. Come certi frati che si flagellano, la cercavi proprio con il sesso
che per te era peccato. Il sesso odioso dei ragazzi dal volto privo di
intelligenza (tu che avevi il culto dell’intelligenza), dal corpo privo di
grazia (tu che avevi il culto della grazia), dalla mente priva di bellezza (tu
che avevi il culto della bellezza). (Oriana Fallaci)
Su quella spiaggia mi
sono fermato per mettere a fuoco una lontananza di avvenimenti, restando
indeciso sulla loro posizione avanti o dietro. Non mi è balenato nella mente
che potessero essere attuali, considerato anche che non avevo alcuna ragione di
ricordarli o di predirli. La voce del poeta era nei chicchi di rena ancora
umidi della loro inconsistenza, rimasti nel silenzio sovrastato di voci rudi,
cattive, maleodoranti. Più su il rumore strascicato del mare, ricordo di una
sera di stupore, di meraviglia per un uomo sacrificato da se stesso nel lungo
peregrinare della sua mente. Se si guarda bene in lontananza c'è sempre un
orizzonte, a volte lungo fino alla curvatura della terra, a volte breve fino a
un monte, un dosso, una foresta, raramente ai resti di una vita. Ma lo sguardo
è lo stesso in ogni caso e in ogni caso l'orizzonte ha le stesse sembianze,
come se la natura avesse mille possibilità di svelarsi. Ho anche compreso che ci sono suoni
diffusi nell'inconscio di una similitudine fredda, un modo di arginare una
sensazione che può dissolvere il significato delle cose. Disteso mi sono
sentito portare all'estremità di una semplice possibilità, dove non ci sono più
gli orizzonti, ma solo posti più lontani che si allontanano continuamente
quando si va loro incontro. Allora ho pensato che potevo anche smettere di
camminare perché non sarei mai riuscito a raggiungermi per provare che le
allucinazioni non hanno sensi definiti, ma si compattano nelle loro debolezze
fatte di sogni e di immagini lascive. Quando stavo a Roma in estate andavo su
quelle spiagge (Ostia, Fregene) a colorare il mio corpo acerbo, infantile. E
sentivo gli ormoni che già salutavano chi mi accarezzava. Un gioco, un gioco di
sintesi infinta, come sentirsi colpire a un fianco senza dolore, senza alcun
risultato. Ma capire la forza del colpo. Adesso ero il poeta che aveva giocato
con gli ormoni, li aveva aperti e ne aveva estratto il nettare di una poesia malinconica,
soggettivamente esausta. Il poeta seduto sulla rena intrisa dal sangue del
poeta, demiurgica coscienza che aveva cercato il riscatto, la consapevolezza di
sé nelle profondità di qualcosa che sfuggiva continuamente a una forma, a una
descrizione. Che poeta poteva esserci nella violenza di una sera mistica che
avevi comunque cercato da tempo, in quella fine dove la gloria appariva
affrescata in una parete solo orizzontale e la vivacità della mente attendeva
l’inevitabile per esplodere infine in una conoscenza tanto agognata quanto
immediatamente dispersa. All’ultimo avevi forse chiesto di poter iniziare tutto
dal giorno successivo. Non avevi spiegato le ragioni della richiesta è vero,
avevi creduto di non doverlo fare, che non fosse necessario, che avrebbero
capito. Ma guardasti gli occhi spenti, il volto ottuso, il sesso unica
espressione umana e capisti che per alcune cose era ormai tardi e per altre era solo l’inizio,
ineluttabilmente. Come quando sentivi strane cose dentro, come il generico
desiderio di trovare. Non sapevi cosa, solo trovare, qualunque cosa, anche una
cosa che qualcuno aveva perso, una cosa da nulla, buttata via, una cosa anche
sporca. Il tuo rapporto con il mondo era falsato dal senso di innocenza
congenita, qualcosa che avevi da sempre, che non ti lasciava mai. Avevi provato
a distrarti, andare nei posti, frequentare persone, ma non eri mai riuscito a
toglierti di dosso quella sensazione. Ma forse era più di una sensazione. Una
realtà? Parola grossa che non ti sentivi proprio di pronunciare. Diciamo un
qualcosa che vedevi e non vedevi, che potevi mostrare o non mostrare.
Insomma qualcosa che non aveva fisionomia particolare, ma nella filigrana del
tuo mondo si distingueva e quindi era certamente esistente. Quella volta senza
saperlo era cominciata una cosa diversa che scombinava tutto, che aveva
prodotto nella tua mente immagini di situazioni di cui non trovavi rispondenza,
che non eri riuscito per un lungo attimo
a collocare in nessun momento delle tue giornate e non l’avevi percepita
neppure nei tuoi incubi. Era naturale quindi che ne traessi turbamento,
instabilità, paura. Come era naturale che cercassi di toglierti di dosso
quella situazione, di abbandonarla da qualche parte, di sentirti di nuovo
leggero in quella notte di passaggio, di assenza appena avvertita di tutta una
vita. Pensavi che un fiume scorre come una memoria e lascia melma, lascia
detriti. In fondo quella nebbia leggera che cominciava ad offuscare era
gratificante, ti lasciava smarrito e irriconoscibile, ti portava all'inizio
della storia. Nata lì, su quella riva,
su quella rena, sui gemiti di una perifrasi della tua prima esistenza,
quando avevi fame di quell'odore che saliva sempre più acre con l'eccitazione.
Ma non erano simboli, neppure modi di esistere e nemmeno scene di passione.
Erano dolci ricordi di qualcosa che doveva ancora accadere, che non aveva
ancora posto nel mondo. Come la percezione di ciò che desideravi, che volevi
dentro, a cui avevi lasciato da tanto un posto ben definito, per avere qualcosa
anche tu e baciare le labbra offerte in un piccolo spazio di
consapevolezza. D'improvviso vedesti e fosti folgorato dalla strana
fisionomia che ricordava il niente, che capiva che il vuoto non
aveva il posto promesso dalla tua fantasiosa costruzione di avvenimenti. Capìvi
anche che i tuoi attimi erano trascorsi prima di esserne il legittimo titolare,
in certe sere dove l'amore aveva l'aspetto di tutto ciò che ti era
intorno. Un amore sfasato dall'ampiezza della tua capacità di averne
bisogno, dalla falsa ragione che tutto derivasse da quella strana posizione in
cui ti eri trovato quando avevi provato ad adagiarti dove il calore scaldava il
morbido della pelle. Forse qualcuno avrebbe pensato che non era successo
niente e sarebbe corso a dirlo, a spiegare che lui sapeva cosa volesse dire
veder scorrere l'acqua del fiume sotto il ponte. Poi capisti perfettamente
che non ti importava cosa potessero pensare o dire, era una cosa
esclusivamente tua e ne potevi disporre senza rendere conto a nessuno, per una
volta, per una sola volta.
Solo il rumore del mare
adesso ondeggia le parole e risacca lentamente il silenzio della notte in una voce
corsara rimasta afona sul litorale, in
attesa di quell’ultima felicità che la spenga e la sublimi per sempre
nell’agognata Tortuga:
“ Agli angoli delle
strade piccoli sciuscià vendono minuscole gabbiette dove frinisce uno strano
animale che non salta più. Lo vendono per pochi spiccioli e infastidiscono i
passanti con le loro insistenze. Hanno abiti troppo larghi o troppo stretti e
sfoggiano un sorriso donato sicuramente da qualche opera assistenziale. Sempre
agli angoli delle strade, agli angoli di tutte le strade, dove passano
lentamente maschere di un carnevale precoce.
E’ una inconscia dinamica
di tristezza che corre lungo i margini di piccole dimensioni esistenziali.
Piccole immagini di altre situazione rese incomprensibili adesso,
significazioni di un esercizio non più dinamico del vivere. Dietro l’occasione
si nasconde il tempo delle occasioni perdute, delle novità rimandate, del tempo
magro di spiragli di umanità. Si possono numerare uno per uno i sogni che
esplodono in momenti diversi, in intervalli di flussi vitali che si perpetuano
uno dietro l’altro, senza un volto di riconoscimento. Quasi ectoplasmi
imbizzarriti della coscienza che anela il senso di avere ancora la capacità di
rappresentarsi. Si crede di occupare tempo in uno spazio rarefatto fino a un
senso di mancanza di respiro, di difficoltà a deglutire minuti e ore che
impedisce il naturale ricambio vitale. L’astrattezza dell’insostenibile
esigenza di continuare comunque un cammino si restringe nell’insolubile
desiderio di stare in ogni caso al posto fissato, unica possibilità di non
cadere, di vedere ancora una strada che comunque è davanti. Piccola
esemplificazione di una disagiata possibilità di organizzarsi, di spendere il
tempo nel migliore dei modi. Anche quando il senso della vita appare
paradossalmente inusuale e pigro, come non avesse alcuna volontà di movimento.
Inutile, come le cose che inutilmente appaiono e scompaiono dal nostro
orizzonte, senza alcuna partecipazione, senza nessun patema d’animo. Ero
consapevole della situazione, avvertivo chiaramente il pericolo. Mi muovevo con
lentezza, le lunghe antenne tese a rilevare ogni rumore, ogni alito di qualunque
genere. Quanto può esistere un essere in quella situazione, come deve
comportarsi per sopravvivere? Infinita letteratura ha chiarito gli aspetti
banali, le linee guida di quella speculazione pericolosa, nei meandri di un
viscido conglomerato attraversato da brevi
lampi lineari verdi. Ma nessuno era mai riuscito a viverla, ad avere la
diretta percezione della sua estraneità ad ogni esperienza. Attendevo il
momento propizio per essere cosciente, per dare un significato di sintesi a una
serie di esperienze che non conoscevo. Non avevo erba ne acqua e avevo fame e
sete. Mi raggomitolai ponendo il corpo squamoso a circolo, unendo quasi la
testa con il bacino. Così stavo abbastanza bene e potevo riposarmi per un
poco. Ma come era possibile che fossi
solo, che le mie antenne non captassero alcun rumore, alcun movimento? C’era
una sintonia magica fra me e quel bulbo molle che da una iniziale sensazione di
schifo era piano piano divenuto un giaciglio, caldo e semovente. Pensavo a
quanta oggettivazione, a quanto misticismo poteva avere la posizione inversa di un mondo fermato
bruscamente nella sua accelerazione. C’era una singolare espressione di
identità con un esempio di rara similitudine umana, una piccola esagerazione nell’immediato
desiderio di evadere, un gusto direi, espresso molto fedelmente girandomi sulla
schiena e facendo muovere le molte zampette come in un tandem. Sentivo che nasceva e si formava una stupida
ipotesi di esistenza, proprio come averla avanti e dietro nel giorno e la sera
spostarne lentamente la prospettiva in quella iperbolica misura di una immobile
ipotesi del senso di un posto già occupato. Il posto ecco, era il posto già
preparato l’incognita, ciò che poteva davvero vincere la nostalgia. Ma non
potevo avere questa certezza e mi chiudevo
in una esaltante cinta ideologica. “Oltre l’ossessione della primavera ci sono
i fiori e hanno anche un odore
rigenerante ma nella prateria gli zoccoli di cavalli bradi stanno dissodando
terreni incolti” pensavo e potevo sperare che la strada maestra sia un vicolo
più largo e luminoso anche se non ci sono speranze che un posto solitario sia
la costante di una vera possibilità. Ma è
di sicuro un avvenimento speciale e avrò certamente la coscienza di
averne diritto per quell’ unica ragione che hanno detto essere mia, ma che
nessuno ha reso omogenea al mio frantumato ricordo embrionico, come fare tante
volte il giro di un vecchio palazzo senza trovare la porta d’ingresso ma essere
comunque sicuro di essere entrato. La
lontananza degli avvenimenti riflette la padronanza di cose, di persone, di parole. Una piccola
dimensione esiste senza linee di confine, ellisse virtuale di dimensione come
l'universo, assenza dello spazio di tempo nelle infinite intersezioni che non
sono ma accolgono l’inconscia sublimata possibilità del niente nella traduzione
cosmica di un avvertito idioma mai parlato. Cosa voglio ormai, cosa cerco nella conoscenza,
nella vicinanza, nella compagnia?
Un abbandono come mi hanno detto con
aristocratico fascino erotico ? Certo
potrei farlo, potrei regalarmi l’ultimo momento senza avere paura del
niente e senza crollare d’istinto. Vedrò passare conoscenze inutili, cercherò
un punto fermo, un’illusione di voce, un movimento adatto all’insolenza. So che
tutti vorrebbero controllare, vedere il cedimento, avvertire che l’urlo è suono di
paura vitale, l’impeto di un coito interrotto, un abbandono dunque come si
potrebbe appunto minimizzare. Ma non sarà così, un dio della luce avrà altro da fare, si perderà
in altri luoghi, in altri animi e l’abbandono sarà con me stesso, non c’è
nessuno che lo meriti, nessuno con cui possa godere l’ultima volta nel
leggiadro senso del nulla, negli avvenimenti del corso del destino, suprema
voglia di esistenza. Cerniere di pensieri aprono voci, simbiosi lontane,
immagini senza lineamenti, traspirazioni
del creato nel planetario umido di coscienza. Circoncisioni di difetti esaltano
la prima libertà, concetto senza voce, colore del buio di un ricordo nell’
immaginaria esaltazione dell’ultimo coito di genere indeterminato. Si dice
delle parole scomparse che sgranano la spirale della vita, che il tempo lascia
immagini voltate a un ricordo da farsi amico per sempre, da sentire nelle ore
come odore obsoleto con i minuti gettati
nell’angoscia. Come una breccia nell'inconscio sembra ancora essere, non
tornare, riflettere nella sera, riconoscere la notte come giorno passato
ad attenderla nella speranza che il tempo sia quello non avuto, amare la
fisicità delle parole, il grido angosciosamente felice del venire, la nostalgica
consapevolezza di vivere oggi un tempo lontano. Come una solitudine abissale
nel torpore d’animo, abbraccio l’infinita espansione, penetro profondi di
pensiero, silenzi, lontananze, smarrimenti, occasioni inutili, incontri senza
protezione. La monotonia filigrana immagini, suoni parlano spazi, calendari
di indifferenza vivono miserie di giorni
senza tempo, attimi uguali, invisibili arcobaleni di speranze, silenzi della
fantasia. I portoni senza cardini aprono visioni su mari, montagne, strette di
mano. Il divenire è incognita nella
verità dell’illusione. Con sguardo di cieca meraviglia sputo le piume di un dio
che dorme nel mio nido e apro il becco
per dividere il verme. L’essere e il nulla non danno brividi metafisici,
costruiscono oggetti banali per una lettura svagata, la colpa non è mai della
bestia ma di chi si avvicina e la tragedia è avere perduto il senso della
tragedia immersi nella tragicommedia dei giorni dove vivere è divenuto
imperativo di non pensare al significato della vita, alla paura fisica, al
terrore con radici nell’inconscio, serenamente rumore incomprensibile.
Nell’apocalisse di un penitente la vera ragione del silenzio esclude
umanizzazione della sofferenza, perde le grandi dimensioni, dove
l’imprevedibile immagine della fortuna media le previsioni perdendo l’unica
sicurezza in una sottomessa precarietà d’istinto. Un leggiadro senso del nulla nel corso del
destino rallegra la suprema voglia di esistenza nelle cerniere di pensieri che
aprono voci, simbiosi lontane, immagini senza lineamenti, traspirazioni del creato nel planetario umido
di coscienza. Circoncisioni di affetti esaltano la prima libertà, concetto
senza voce, colore del buio di un ricordo nell’ immaginaria esaltazione. Nuoto in un mondo liquido senza consistenza
di appiglio, faccio il morto dondolando su onde sporche, respiro ad intervalli
regolari, saluto il capitano dell’ultima nave
passata. Rivolto al cielo non vedo orizzonte, si perdono i punti
cardinali, la notte chiude gli occhi in
un ondeggiante odore di cloroformio. Ora nell’ alba galleggia un corpo in superficie, nero nell’incertezza
dell’aurora. Dondola, si allontana, si avvicina, si accosta, è caldo, le
mani sciabordano l’acqua, sfiorano la
parte sensibile del corpo. Un’onda ci
capovolge e non c’è più cielo, fisso lo sguardo innocuo, impaurito, languido.
La marea sospinge a riva come pesci fuor d’acqua saltellanti sorsi d’aria, per la
risacca che ritira le onde, su un solido
di migliaia di chicchi di rena e i polmoni respirano iodio. Il silenzio è uno strano rumore di risucchio
sempre più debole fino a un clic
metallico. Rotolando sulla rena ci allontaniamo sicuri di arrivare quando
avverto il disagio di essere escluso
dalla sottile ragione di interessi che tiene uniti gli uomini senza elementi
comuni, contratti in ipotesi differenti
nell’assurdo solfeggio per una musica rara. Amarsi è il momento giusto per
cominciare ad allontanarsi dalle immagini di situazioni ormai accadute
nell’armonia di quanto non ha esistenza nel vissuto che rimpiange i primi indizi
di una stupida possibilità certa. Possedersi poi senza il senso di capire, non
fermarsi e correre nel gioco continuo delle spirali di una discesa al punto
ultimo, nel sapore di un incognita che odora di ranno e di bucato antico quando
si rende una vita farcita di delicatezze al dio che ha perduto il suo regno. E
i cari oggetti che fanno compagnia sfumano la solitudine del quotidiano,
oggetti che ricordano passati vizi, vecchi, usurati dal tempo, compiaciuti di
essere stati posseduti, inespressivi nei giorni
monotoni. Li ho visti vivere,
animarsi, sfumare luoghi e persone, nelle ore rintronare parole nella
mente, accompagnare solitudine e paura, dar credito alla promessa estranea di
un mondo non buono ma stupidamente necessario a vivere ”
Stefano Zangheri
Per
l’anniversario della nascita di Pasolini, libro di AA.VV., edizioni Elsud, ideato e realizzato
dalla Presidenza della Accademy Regione Basilicata.
Il libro è stato ritenuto meritevole di essere ufficialmente inserito nel Comitato Nazionale per il centenario della nascita di Pasolini.